L'ALBERO DEL PARADISO CHE SCATENO' L'INFERNO

 

Gli anglofoni lo chiamano Tree of heaven, i francesi Arbre du ciel, gli italiani Albero del paradiso, Ailanto, Sommaco falso o Sommaco americano; i botanici di tutto il mondo sono concordi nell’identificarlo con il termine scientifico Ailanthus altissima. Questa comunissima pianta arborea caducifoglia, riconoscibile dall’inconfondibile odore sgradevole delle sue foglie, spesso domina molti paesaggi italiani, sia rurali che urbani. L’ailanto è originario delle Isole Molucche, del Nord del Vietnam e della Cina e la sua diffusione in diverse aree del globo, Italia compresa, è legata all’industria tessile della seta.

Venne introdotto per la prima volta in Europa, più precisamente in Gran Bretagna e Francia, nel 1743 da semi inviati dal missionario gesuita di origine francese Pierre Nicolas d’Incarville, che scambiò erroneamente l’ailanto per l’albero cinese della lacca. La diffusione da parte dell’uomo avvenne per motivi estetici (veniva piantato in molti giardini e parchi), per questioni selvicolturali, ma soprattutto per la diffusione della pratica dell’ailantocoltura. 

Nella metà del XVIII secolo, infatti, l’allevamento del classico baco da seta (Bombix mori) subì una forte contrazione a causa di una grave malattia, nota con il nome di pebrina (o atrofia parassitaria o mal delle petecchie), causata da un protozoo parassita appartenente al genere Nosema. Questo parassita si diffuse a partire dalla Francia e raggiunse nel 1854 il nostro paese colpendo duramente gli allevamenti di baco da seta italiani. Di fronte a questa catastrofe l’unico rimedio fu quello di sfruttare una seconda specie di baco da seta, Samia cynthia, introdotta nel 1856 dal frate missionario P. Fantoni. Questo baco viene comunemente chiamato Sfinge dell’Ailanto, e non si nutre del gelso ma appunto dell’ailanto. Ciononostante, l’esperimento dell’ailantocoltura per la produzione di un nuovo tipo di seta durò poco più di un quindicennio grazie ai progressi scientifici di Louis Pasteur che, tra il 1865 e il 1870, trovò un rimedio per contrastare la pebrina e riportare la gelso-bachicoltura ai livelli produttivi di un tempo.

Dopo il fallimento dell’allevamento di S. cynthia l’ailanto continuò ad essere coltivato come albero ornamentale, per la sistemazione di scarpate e per scopi selvicolturali, principalmente legati alla produzione di carbone e cellulosa. 

L’ailanto si propaga con grande facilità anche per seme; ogni albero è in grado di produrre decine di migliaia di frutti, chiamati samare, ciascuno con un seme centrale, che si disperdono grazie al vento. Nel biellese prospera lungo numerose strade (ad es. via Corradino Sella a Biella o lungo la superstrada Biella-Cossato) e nei giardini abbandonati; ha infatti radici che possono frammentare l’asfalto ed il cemento insinuandosi talvolta nei muri delle case. Questo albero oltre a rappresentare una seria minaccia per le altre specie arboree, sottraendo loro luce, acqua e sostanze nutritive è poco apprezzato dall’avifauna (difficilmente gli uccelli costruiscono il nido tra i suoi rami radi) e dai boscaioli per la scarsa qualità del suo legno. 

Se l’ailanto è ancora facilmente visibile nel territorio biellese, della Samia cinthia si sono perse invece le tracce? In realtà l’appariscente e grande lepidottero (le femmine possono raggiungere un’apertura alare di 16 cm) vola ancora nel biellese a ricordo di questa incredibile storia legata alla produzione della seta. 

 

Per saperne di più…

 

 

Negro M. 2014. Passeggieri inattesi lungo le vie del tessile. Rivista Biellese, ottobre 2014.


LA MARGHERITA CHE NON PIACE AI CAVALLI

 

 

Il senecio sudafricano (Senecio inaequidens) è una pianta erbacea, talvolta arbustiva, appartenente alla famiglia delle Asteraceae che presenta il suo areale originario nella porzione meridionale del continente africano. E’ stata introdotta accidentalmente in Europa alla fine del XIX secolo attraverso il commercio della lana, probabilmente sotto forma di semi rimasti intrappolati all’interno delle fibre di lana grezza (Bouvet, 2013). In Italia è giunta nel periodo della seconda guerra mondiale ed è stata osservata per la prima volta nel 1947 a Verona. Dalla seconda metà del XX secolo la sua diffusione è stata inarrestabile e attualmente è presente in tutta Italia ad esclusione della Puglia. Per quanto riguarda la regione Piemonte le prime stazioni segnalate risalgono al 1974 lungo il fiume Sesia nei pressi di Vercelli (Soldano, 1976). Dal vercellese si è poi diffusa dapprima nelle zone planiziali e successivamente si è spinta sempre più nelle aree collinari e all’interno delle vallate alpine. Nella zona del biellese la specie risulta particolarmente diffusa e abbondante dalla pianura alla montagna. La quota massima in cui è stata censita è di circa 1300 m s.l.m. lungo la panoramica Zegna.

Si riconosce facilmente per le caratteristiche e numerosissime infiorescenze a capolino, simili a quelle di una comunissima margherita. Ogni pianta ne può produrre fino ad un centinaio in un periodo di fioritura molto ampio che si protrae solitamente da aprile a novembre. Le foglie sessili, sono acuminate, strette e allungate con bordo dentellato.

Nell’arco della stagione vegetativa vengono prodotti circa 30.000 frutti (chiamati acheni) per pianta che si disperdono facilmente nelle aree limitrofe grazie all’azione del vento. La massiccia produzione di semi dall’elevata capacità dispersiva permette al senecio sudafricano di colonizzare velocemente nuove aree soprattutto se molto disturbate, come ad esempio le aree abbandonate, le massicciate ferroviarie e stradali, in cui la competizione con le specie autoctone è ridotta.

Come molte specie aliene invasive il senecio rappresenta una seria minaccia per le specie autoctone determinando una riduzione della biodiversità locale. Ma ciò che preoccupa maggiormente riguarda la sua tossicità nei confronti del bestiame domestico e in taluni casi dell’uomo. Tutte le parti della pianta infatti (foglie, fusti, fiori e semi) contengono alcaloidi pirrolizidinici ad azione epatotossica (Curtaz et al., 2011).

Gli animali domestici colpiti sono soprattutto i cavalli, bovini, suini e galline che possono ingerire il senecio al pascolo o sottoforma di fieno fornito dall’allevatore. Raramente la pianta verde viene selezionata direttamente dagli animali in quanto ha un sapore molto amaro, che si perde con il processo dell’affienamento. L’essicamento però non elimina le tossine e pertanto, se gli animali vengono alimentati a lungo con fieno contenente senecio sudafricano, gli alcaloidi possono biocontentrarsi (accumularsi nell’organismo) a livello epatico causando danni al fegato stesso ma talvolta anche a cuore e polmoni. Un animale avvelenato può mostrare sintomi quali perdita di peso, diarrea, problemi neurologici, letargia, ecc.

 

Solitamente gli effetti più gravi si manifestano nel cavallo (il nome della specie, inaequidens, infatti ricorda la maggior sensibilità degli equidi), che è solito pascolare nelle aree marginali spesso colonizzate dal senecio. E’ stato calcolato che la dose letale per questo animale domestico è di 300 g al giorno per un periodo di 50 giorni. Curiosamente altri animali quali ovicaprini, tacchini e ungulati selvatici (cervi) sembrano essere più tolleranti agli alcaloidi del senecio. L’uomo può essere intossicato direttamente per il consumo di senecio erroneamente raccolto in campo o, più frequentemente, indirettamente per consumo di latte o uova provenienti da animali contaminati.

 

 

Per saperne di più…

 

Curtaz A., Talichet M., Barni E., Bassignana M., Masante D., Pauthenet Y. & Siniscalco C. 2011. Specie esotiche invasive e dannose nei prati di montagna: Caratteristiche, diffusione e metodi di lotta. Institut Agricole Régional, AOSTA, 77 pp.

Bouvet D. (ed.) 2013. Piante esotiche invasive in Piemonte. Riconoscimento, distribuzione, impatti. Museo Regionale di Scienze Naturali, Torino, 352 pp.

Negro M. 2014. Passeggieri inattesi lungo le vie del tessile. Rivista Biellese, ottobre 2014.

 

Soldano A. 1976. Segnalazioni di nuove specie esotiche nel vercellese con considerazioni sulla loro diffusione in Italia e sull’areale di altre entità interessanti già note. Atti dell’Istituto Botanico e del Laboratorio Crittogamico dell’Università di Pavia, ser. 6, 11:119-129.


UNA VISITATRICE DAL SUD-AFRICA

 

Con l’arrivo della primavera i nostri balconi tornano ad essere colorati grazie alle fioriture dei classici pelargoni. Va detto che il pelargonio (Pelargonium), che noi impropriamente chiamiamo geranio, in realtà appartiene ad un genere dell’Africa meridionale. Il genere Geranium invece annovera alcune piante spontanee che crescono nei nostri prati caratterizzate da fiori rosa e violetti. Negli ultimi anni capita sempre più spesso di osservare i nostri bellissimi pelargoni che improvvisamente deperiscono fino a morire. La causa va ricercata in una piccola farfalla africana dalla colorazione bruna, chiamata comunemente licenide del geranio (Cacyreus marshalli), le cui larve si nutrono appunto dei nostri pelargoni. Come ha fatto questa farfalla a giungere fino a noi? Ha letteralmente preso la barca: nel 1987 giunse a Palma di Maiorca, in Spagna, un carico di pelargoni provenienti via mare dal Sud Africa (Di Domenico, 2008). Tra le giovani piantine si celavano le larve del licenide, il quale, ritrovandosi in un’area con un clima molto simile a quello del suo areale di origine, si adattò perfettamente e iniziò la sua personale conquista dell’Europa. Dalla Spagna si diffuse in Europa e nel 1996 conquistò Roma. Nei primi anni del nuovo millennio raggiunse i territori settentrionali del nostro paese: nel 2007 giunse a Venezia e poco dopo in Piemonte. Questo insetto ha una capacità di dispersione molto elevata; ogni anno è in grado di percorrere decine di chilometri deponendo sui pelargoni di ignari appassionati. Recenti studi condotti dall’Università di Torino (Quacchia et al., 2008) hanno evidenziato come sia in grado di deporre non solo sulle specie coltivate di Pelargonium, ma anche su quelle selvatiche di Geranium (G. pratense, G. sanguineum e G. sylvaticum), rappresentando quindi una seria minaccia per queste ultime.

 

Per saperne di più:

 

Di Domenico M. (2008). Clandestini. Animali e piante senza permesso di soggiorno. Bollati Boringhieri; 204 pp.

 

Negro M. (2012). L’invasione degli alieni. Rivista Biellese, ottobre 2012.

 

Quacchia A., Ferracini C., Bonelli S., Balletto E. & Alma A. (2008). Can the Geranium Bronze, Cacyreus marshalli, become a threat for European biodiversity? Biodiversity and Conservation, 17: 1429 -1437.


CEDRONELLA, MESSAGGERA DI PRIMAVERA 

 

Con il sopraggiungere della primavera, grazie al tepore delle giornate soleggiate, è possibile scorgere le prime farfalle in volo tra i fiori che timidamente sbocciano nei prati. Dai loro ripari invernali si avventurano  alla ricerca di un potenziale partner le Cedronelle (nome scientifico Gonepteryx rhamni).  Queste appariscenti farfalle, appartenenti alla famiglia Pieridae (che include le comuni cavolaie), presentano un’apertura alare intorno ai 5 cm e si contraddistinguono per un evidente dimorfismo sessuale. Il maschio presenta una colorazione giallo-limone con una piccola macchia arancione al centro delle quattro ali mentre le femmine sono verdastre con le medesime macchie arancioni. Il colore e la forma delle ali le rende particolarmente mimetiche tra la vegetazione e i fiori. Al termine dell’inverno è piuttosto comune veder volteggiare in aria in una danza di corteggiamento un maschio e una femmina. Dopo l’accoppiamento, che solitamente avviene nella tarda primavera, le femmine depongono le loro uova sulla pianta nutrice delle larve che appartiene alla specie Rhamnus frangula. I bruchi si svilupperanno durante l’estate e dopo la fase di crisalide emergeranno gli adulti della nuova generazione, che trascorreranno l’inverno nascosti in numerosi rifugi.

La Cedronella è comune nel biellese ma osservarla volteggiare ci trasmette un senso di serenità perché ci ricorda che i rigori dell’inverno sono terminati e una colorata primavera ci attende!

 

Per saperne di più: Raviglione M. & Boggio F. (2001). Le farfalle del biellese. Amministrazione Provinciale di Biella